Il bandolo della Matassa, Tom Lubbe

Il bandolo della Matassa, Tom Lubbe

Tom Lubbe è un neozelandese cresciuto in Sud Africa, dove ha cominciato a produrre vino negli anni ‘90, prima di decidere che il posto giusto per i suoi “vini un po’ strani” era la Francia. Da dieci anni produce vino nella Côtes du Roussillon.
Nel nostro catalogo abbiamo quattro vini bianchi: Coume de l’olla Blanc (50% Macabeu, 50 % Muscat), Cuvée Alexandria (100% Moscato d’Alessandria), Cuvée Marguerite (50% Moscato d’Alessandria, 30% Macabeu, 20% Muscat a petit grain) Côtes Catalanes Matassa Blanc (70% Grenache Gris, 30% Macabeu); e altrettanti rossi: Coume de l’olla Rouge (70% Grenache Noir, 20% Grenache Gris, 10% Macabeu), El Sarrat (100% Mourvèdre), Côtes Catalanes Rouge “Romanissa” (90% Grenache Noir, 10% Carignan) e Côtes Catalanes Matassa Rouge (100% Carignan).

Qual è il tuo percorso come produttore di vino?

Gesù! [Ride] Ok, versione breve: ho iniziato a fare il vino perché mi piaceva berlo. Ho cominciato che ero molto giovane, a 12-13 anni. Il mio gusto era per i vini di stile europeo, classici, freschi, con bassa gradazione alcolica. Quando alla fine degli anni '90 sono tornato in Sudafrica dalla Nuova Zelanda, dove ho frequentato l’università, ho trovato vini davvero orribili e molto alcolici. Ero così disgustato che ho deciso di mettermi a fare vino io stesso. Non avevo nessuna formazione specifica, ma sapevo di voler lavorare in biologico e senza additivi, ed è così che ho cominciato a produrre vino in Sudafrica. Per alcuni anni ha funzionato, poi ho iniziato ad avere problemi con la burocrazia locale. A quel punto stavo già lavorando nel Sud della Francia, durante la vendemmia, e lì avevo anche conosciuto mia moglie, che è francese. Abbiamo deciso che in Francia sarebbe stato più facile fare il vino che avevamo in mente – per il Sudafrica di allora, il mio vino era un po' strano. Da allora, molti giovani sono venuti a lavorare con me per poi tornare in Sudafrica a fare il vino in un modo diverso. È bello per me mantenere questo genere di legame, ma penso che resterò in Francia adesso. È un buon posto per il mio lavoro, e mi piace anche poter insegnare ai giovani a fare il vino. Studiare è una buona cosa, ma produrre vino deve essere personale.

Cosa c’è che non va nello studiare viticoltura?

In Francia, come in Sudafrica o in Nuova Zelanda, le scuole di viticoltura sono sponsorizzate dalle aziende chimiche. Frequentare una scuola che in parte è pagata da Bayer o Monsanto non ha niente a che fare con il vino: si impara a fare il vino per i supermercati, il vino come un prodotto da scaffale stabile. Non si impara a rispettare la terra, a pensare a chi verrà dopo noi: si impara una ricetta che non ha nulla a che fare con il modo in cui ci sentiamo quando beviamo un buon bicchiere di vino. L’unica lezione che si impara a scuola è ottenere stabilità, coerenza, previdibilità.
Il mio non è un discorso generale: studiare all'università è molto prezioso, se insegna a elaborare le informazioni. Per essere un contadino, oggi, bisogna essere in grado di leggere un libro.
Però se un giovane decide di passare dal convenzionale al naturale – che si tratti di agricoltura o di vinificazione, le due cose del resto dovrebbero andare di pari passo – si trova un sacco di pressione addosso: queste aziende hanno un sacco di soldi, stipendiano venditori il cui ruolo è convincere un agricoltore che se decide di lavorare senza di loro è fottuto.
Nel corso degli ultimi 50 anni abbiamo attraversato un grande ciclo: i prodotti chimici hanno funzionato per alcuni anni, portando raccolti più abbondanti e meno lavoro, e per qualche tempo la qualità del vino non ha sofferto troppo – ma poi ha cominciato a peggiorare, e non ha più smesso. Il valore del vino ha iniziato a scendere, insieme al valore dei terreni in aree come la mia.
Nel Roussillon, dove vivo, 100 anni fa un chilo di carne di manzo, un litro di olio d'oliva e un litro di vino avevano lo stesso valore. Oggi un litro di olio di oliva e un chilo di carne di manzo costano entrambi circa a 13 €, mentre un litro di vino sta a 40 centesimi. È terribile. Come è successo? La gente ha perso il rispetto per il vino: non pensa più che sia qualcosa da fare con cura, impegno, amore, attenzione, e a quel punto diventa un prodotto che non ci fa bene. Diventa tossico.
Questo è quello che mi ha spinto a fare il vino. Non che pensassi tutto questo, in quel momento: ma la sensazione che ho avuto è che le cose com’erano non andavano bene.

Calce

Calce

Sono cresciuto bevendo vini sudafricani molto vecchi: in Nuova Zelanda, quand’ero adolescente, mio padre aveva migliaia di bottiglie che risalivano agli anni ‘30, ‘40, '50 e '60, e quei vini avevano 11 – 11,5% gradi di alcol, duravano molto a lungo ed erano buoni. Quando li bevevi ti sentivi meglio, non peggio.

Ero scioccato dal modo in cui la gente aveva perso il palato. Gli anni '90 sono stati i “secoli bui” del vino: non do la colpa specificamente a Robert Parker, che aveva ragione quando identificò la morte del sapore. La sua soluzione, però, era quella sbagliata: la concentrazione. L'annata del 1982 a Bordeaux è stata un incidente, non qualcosa che la gente dovrebbe provare a riprodurre. Improvvisamente tutti i vini sembravano dei Rioja, sapevano di frutta sciroppata. Erano vini ottenuti in cantina con il legno, con l'estrazione, con la concentrazione – vini fatti per McDonald’s .

Tranne che sono pure molto costosi!

Giusto. Mi viene in mente un’intervista che lessi anni fa a un banchiere super ricco di New York, collezionista di vini di Bordeaux. Raccontava come la cosa che preferiva fare era bere i suoi Bordeaux del 1982 nel suo ufficio di Wall Street mentre mangiava un Big Mac. Mi piace come immagine: è un uomo ricchissimo, ha raggiunto il punto più in alto cui si può aspirare in una società capitalistica, eppure si avvelena l’esistenza vivendo in un ambiente tossico, bevendo vino tossico e mangiando cibo tossico. Dickens non avrebbe saputo scrivere di meglio.
I vini costosi mi fanno schifo. Il vino non è uno status symbol, è fatto per essere bevuto. Alla stessa maniera, non deve essere troppo economico: richiede terra, energia, sforzo, ha valore. Dovrebbe costare più o meno come un chilo di carne bovina.

E i tuoi vini, come sono?

Da cinque anni, tutti i miei vigneti sono inerbiti. Non lascio mai il terreno nudo, e lavoro con diverse piante: abbiamo visto come la vita nel terreno sia aumentata molto nel corso negli ultimi anni. Abbiamo sempre lavorato in biologico e biodinamico ma non voglio più lavorare molto il terreno. Grazie a questo lavoro, negli anni il livello di alcool è sceso: raccogliamo le uve nello stesso periodo, allo stesso livello di maturazione, ma hanno uno o due gradi in meno di alcol – adesso i miei vini stanno tra il 9 e l’11% di alcol. Questa per me è parte della ricompensa del lavoro che ho fatto.
Abbiamo una attività microbica molto più sana, molti più batteri e lieviti che lavorano nel terreno. I vini stessi sono molto più “facili” in cantina, e penso che questo dipenda dal lavoro che abbiamo fatto sul terreno.
Il mio vero obiettivo è coltivare microbi, non uva.

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